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Il Ciclismo Non é Uno Sport, é Un Genere; Per Questo é Immortale

02/06/16 by Davide Tommasin

Il ciclismo non é uno sport, é un genere; per questo é immortale. Come la tragedia, il melodramma, il western. Potete diluirlo nel business miliardario o comprometterlo con una biologia da Frankenstein, affliggerlo della genetica dell’Epo. Lasciate pure che sull’altare del piccolo schermo il popolo dei devoti, per anni, adori idoli bugiardi, come Armstrong, arrogante Cagliostro del pedale.

Ebbene, state certi: risorgerà, continuerà a affollare i tornanti delle montagne per le sue danze di spettri, i prodighi rettilinei delle volate. Il ciclismo prende la misura del mondo nei suoi estremi. Esige dismisura ai suoi protagonisti, é un luogo impietoso di massimalismo. Ma il Campione, il vincitore non é l’inquietante Superuomo. È uno di noi, ci parla, sempre, di cose inaggirabili: la fatica, la solitudine, il silenzio, il sudore. Leggi ancora cartelli dedicati a Pantani: non perché ha vinto molto. Perché era un uomo fragile, sconfitto dalla vita.

LE DIFFERENZE CON IL CALCIO
I calciatori sembrano usciti dal post-proletariato del consumismo, inebetiti da una sosta troppo lunga in centri commerciali. Il ciclista é un proletario puro, alla Vasco Pratolini, ha la faccia di Scarponi, il gregario, che sulle rampe verticali tira su il suo capitano fino a quando il respiro lo regge, la vittoria per lui é la vittoria dell’altro, del baciato dal dio del talento: il suo quotidiano é la catena di montaggio, la fatica del mulo.

TRA MITO E LEGGENDA
Tutto nel ciclismo é sempre leggendario: uno sport che é basato sulla matematica, il cronometro, le distanze, i rapporti, in realtà si impolpa di epicedi ottocenteschi, sfugge alla distinzione banale tra vero e falso. Bahamontes, scalatore spagnolo, raccontano, al Tour del ’57, stremato, decise di ritirarsi, gettò la bici, si sdraiò a lato della strada. Il suo direttore sportivo lo scongiurò di ripartire, per la madre, la famiglia, Dio. Alla fine gridò: «Fallo per il generalissimo Franco…». E allora lui, l’aquila di Toledo, per esser certo di non ripensarci, si tolse le scarpe e le gettò dalla montagna. Vero? falso? Chissà. Il mito che non gira mai a vuoto, che ingrana sempre, la cui memoria non fallisce. A dispetto dell’irrompere di petrolieri kazaki e arabi dove un tempo i «dané» a fine mese li metteva l’autoctono fabbricante di prosciutti o di cucine, il ciclismo resta proletario, e umilmente rivoluzionario. La mamma di Binda, quando gli chiedevano del figlio impegnato in qualche corsa in giro per il mondo, rispondeva placida: «Mio figlio é andato a lavorare».

I TIFOSI SANNO ASPETTARE
Vestiteli di seta, date loro biciclette con il cambio a motore e pedivelle in titanio come astronavi per risparmiare cinque grammi. La classifica autentica arriverà forse dopo un mese, nascosta per ora in qualche provetta. Non importa! I tifosi – in Italia, in Francia, nelle Fiandre – saranno lì ad aspettare il «peloton» con apoteosi di notevole invadenza: perché la strada del Giro o della Grande Boucle é luogo di una verità nuda. I tifosi crescono ai lati delle vie, sugli orli dei marciapiedi, arrivano dalla provincia e dalle metropoli, si discute di moltipliche e di pedalate nei salotti e nelle osterie, ci sono tifosi ottantenni seduti all’ombra e quarantenni che si sono arrampicati con la bici da seimila euro che neppure il campione usa; ragazze in bikini e nonne con la borsa della spesa.

SALITE DI VITA
Il ciclismo ci parla di splendente fatica, di dominio ardente, di una raccolta e autoritaria volontà: cosa c’é di più umano? Quando le ruote urtano nelle rampe della Lombarda o del Mortirolo spariscono i trucchi, é il momento delle chiare definizioni, verrebbe da dire della verità. I campioni si staccano dal gruppo, finisce la cacofonia, lasciano il fardello della vita in comune. La vita, in fondo.

QUEL MISTERO INVISIBILE
Nel 1907, quando il ciclismo era appena nato, Alfred Jarry tratteggiava un blasfemo Gesù ciclista, una Ascensione iconoclasta da «grimpeur». Perché le figure classiche del ciclismo sono la morte e la resurrezione. Ogni tappa può essere la decapitazione del re. Inferno e paradiso si intrecciano in tortuose reversibilità. I campioni passano la vita a demolire gli anziani e a battere i coetanei. Poi devono, a loro volta, osservare i giovani che crescono, rassegnarsi a posizioni di cauta difesa, vincere diventa non una normalità ma un premio, un regalo del destino. Il ciclismo, poi, concede la longevità, in un’epoca di sguaiato giovanilismo fascisteggiante. La maturità arriva a trent’anni quando la giovinezza se ne va. È una disciplina a fermentazione lenta. Bartali vince il Tour nel 1938, lo rivince dieci anni dopo nonostante la guerra e le privazioni, nel 1954 é ancora lì, a tirare un gruppo di bambini. Van Steenbergen era un ercole che domò tutte le volate tra il 1943 e il 1966. Poulidor conobbe ai suoi inizi Coppi, cercava ancora un guizzo quando aveva quarantun anni.

SMILZI DONCHISCIOTTE
I campioni non hanno la maschera del lottatore, il torso del combattente, la sigla e la cifra sguaiata della forza. Sono spesso smilzi donchisciotte, uno della folla, una figura che non si stacca da altre mille. Coppi e Nibali non evocano il massacratore, l’uragano. Il misterioso sistema che li spinge, cuore muscoli polmoni, resta quasi invisibile. Ma quando il plotone inizia a disseminarsi e debuttano le lunghe arrancate, loro vanno su senza peso, accelerando. Anche il più forte resta umanamente vulnerabile: tutta una corsa, tutta una carriera, tutta una vita possono essere decisi da una pedalata fiacca, da un pneumatico che sfiata, da una curva affrontata sbadatamente, da una banale dissenteria.

DOMENICO QUIRICO
Torino – LA STAMPA, 30/5/’16

Davide Tommasin
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