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Etiopia, la testimonianza della resilienza delle donne del Tigray

14 Marzo 2022 by Davide Tommasin

L’8 marzo, festa mondiale della donna, è passato da un po, ma la lotta per i diritti della donna non può e non deve fermarsi ad una data del calendario. Purtroppo le situazioni e le realtà in cui molte donne sono ancora soggiogate ad una determinata situazione di abusi, di repressione e violenze sono ancora reali. Non è perché non le vediamo con i nostri occhi che quelle situazioni atroci e orribili non esistono.

Per questo non è mai fuori luogo ribadire il messaggio: come Focus On Africa vogliamo farlo pubblicando integralmente una lettera pervenutaci da Francesca. Una ragazza dell’associazione delle donne del Tigray, ma ormai parte anche del popolo tigrino e legata alla sorellanza delle donne del Tigray, stato regionale del nord Etiopia.

Ascolta “Tigray e la testimonianza della resilienza delle donne tigrine” su Spreaker.

Buonasera a tutte/tutti,

Sono qui in rappresentanza della Diaspora del Tigray e dell’associazione delle donne del Tigray a Roma per dare voce a tutte le donne del Tigray.

Mi chiamo Francesca e il mio nome tigrino è Lettekidan che significa “Figlia dell’alleanza”, questo nome mi fu dato durante il mio viaggio in Tigray, quando conobbi la meravigliosa terra, cultura e tradizione del luogo, e quel popolo fiero e umile, ma soprattutto le grintose donne del Tigray, che per il loro amore incondizionato mi hanno accolta con alleanza e sorellanza.

Cos’è il Tigray? Il Tigray è una regione settentrionale dell’Etiopia con circa 7 milioni di abitanti. Dopo una lunga lotta armata durata 17 anni contro il feudalismo e il fascismo, i partigiani e le partigiane, le quali costituivano quasi il 40% della lotta armata, riuscirono a conquistare la libertà non solo del Tigray ma di tutti i popoli della zona (quasi 85 gruppi etnici) dando loro il diritto all’autogestione e all’autodeterminazione per ben 27 anni.

Per varie vicissitudini politiche, nel 4 novembre del 2020 il primo ministro Etiope Abiy Ahmed, Premio Nobel per la Pace nel 2019, in alleanza con il brutale regime Eritreo di Iseyas Afewerki e le milizie “Fanno” della supremazia Amhara, hanno assediato e messo a soqquadro l’intera regione del Tigray.

Le prime notizie trapelate dopo un lungo soffocamento dei media e delle comunicazioni hanno rivelato come la destabilizzazione sia stata di proporzioni apocalittiche. In parole povere nel Tigray si stava consumando un vero e proprio genocidio sistematico all’oscuro di tutto il resto del mondo. Cosi con il gruppo della nostra diaspora del Tigray, e in prima linea con l’associazione delle donne del Tigray, iniziammo a mobilitarci in tutte le città del mondo con manifestazioni, campagne Twitter e ogni mezzo necessario per far emergere la voce del nostro popolo soffocato e privato di tutti beni di prima necessita come acqua, cibo, cure mediche, elettricità e comunicazioni per 489 giorni. Ancor oggi la nostra lotta continua perché la regione del Tigray è ancora sotto assedio, tagliata fuori dal resto del mondo e senza alcun aiuto o sostegno umanitario, dovendo fare i conti ogni giorno con donne e bambini che muoiono per la fame.

Il bollettino post-guerra è spaventoso. Secondo le persone attive nel movimento “Omna Tigray”, ci sono stati fino a ora:

  • 70.000 civili uccisi
  • 900 mila in condizioni di carestia
  • 6,8 milioni con bisogno di cibo di emergenza
  • 70.000 rifugiati in Sudan
  • 2,2 milioni sfollati interni
  • 75% delle università statali e private sono state sabotate o distrutte
  • 80% delle strutture sanitarie sono state saccheggiate, vandalizzate o distrutte
  • 99% delle ambulanze trafugate in Eritrea o distrutte

Questi dati sono l’apice di una guerra genocida perpetrata sulla pelle di civili inermi, e senza dubbio dimostrano che l’impronta del conflitto ha assunto i tratti di una pulizia etnica, orchestrata e architettata per ben 3 anni (sin dall’ascesa al potere di Abiy Ahmed e dalla sua alleanza con il dittatore Isaas Afewerki) che hanno sguinzagliato dei feroci e disumani soldati che hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Ma noi oggi in questo fatidico 8 marzo vogliamo cogliere l’occasione di stare a fianco di tutte voi, sorelle, per denunciare il crimine più indicibile che è stato commesso in questo conflitto: quello di aver trasformato il corpo delle donne del Tigray in un campo di battaglia, violentando e stuprando in branco senza alcun remore da fanciulle di 5/6 anni a donne tra i 49/65 anni.

Un rapporto pubblicato l’11 agosto 2021 da Amnesty International denuncia che lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono state usate come armi di guerra in Tigray; la gravità e la dimensione di questo crimine contro le donne è di proporzioni esorbitanti.

L’Agenzia degli Stati Uniti dello sviluppo internazionale (Usaid) ha rilevato che almeno 22.500 donne e fanciulle del Tigray hanno cercato cure mediche per violenza sessuale prima della fine dell’anno 2021; ora la situazione si è rilevata molto più drastica dopo un’indagine accurata fatta in tutte le città e villaggi dell’entroterra del Tigray: in 8 mesi di occupazione del Tigray da parte dell’esercito etiope ed eritreo, infatti, sono state stuprate più 120mila donne e fanciulle secondo il dottor Hagos Godifay (responsabile della salute del Tigray), senza considerare i luoghi ancora occupati da eritrei nel Nordest e da Amhara nel Sudovest (Irob, Kunama, Humora, Welkait, Tselemti). Il numero si è quintuplicato rispetto le statistiche di Amnesty International dopo essere riusciti a raggiungere zone remote, che per mesi sono state completamente prive di comunicazioni e mezzi di trasporto e che ora sono state raggiunte grazie all’inarrestabile movimento Tdf (l’esercito per la difesa del Tigray) composto di un gran numero di donne che, unite nella lotta armata, dicono “NO ALLA VIOLENZA NO ALLO STUPRO”.

La natura degli stupri è raccapricciante; vi avvisiamo che ne faremo qui alcuni accenni. Le donne del Tigray sono state violentate davanti ai famigliari e ai figli piccoli, alcune sono state stuprate per giorni nei campi dei militari, gambizzate e mutilate per essersi ribellate agli stupratori; alcune hanno subito l’inserimento nella vagina di oggetti contundenti come chiodi, ghiaia, materiale plastico, in alcuni casi anche metalli roventi. Si tratta di disperati atti commessi nel tentativo di sterilizzare le donne tigrine: “voi non dovete più fare figli” oppure “ora noi vi purificheremo con il nostro seme” sono frasi che echeggiano nelle menti delle vittime, molte delle quali portano in grembo gravidanze indesiderate dopo gli stupri, e con le quali, non avendo accesso a cure mediche e interruzioni di gravidanza, sono costrette a convivere. 

Alcuni esempi sono le storie di Monaliza, 18 anni, studentessa tigrina sopravvissuta che ha raccontato alla BBC di come abbia perso la mano destra per difendersi da un soldato che ha cercato di violentarla e che aveva anche cercato di costringere il nonno ad abusare di lei.

Mehrawit, 27 anni. Un branco di 23 soldati eritrei l’ha violentata in gruppo ripetutamente, fratturandole la colonna vertebrale e il bacino; i suoi ricordi sono molti chiari, tanto da ricordare che un giorno 15 soldati a turno l’hanno stuprata per otto ore. Dopo 11 giorni di stupri e percosse in cui i soldati le hanno inserito nella vagina chiodi, cotone, sacchetti di plastica e un sasso, è stata rilasciata e abbandonata nella boscaglia.

Sarà costretta a rimanere su una sedia a rotelle, ma soprattutto, con il gravissimo trauma psicologico indelebile che porterà con sé per tutta la vita.

Senayt, legata a un albero e stuprata per 10 giorni dinnanzi a suo figlio di 12 anni, e che esausta per l’immane violenza ogni tanto sveniva, in uno dei risvegli si ritrovò in un agghiacciante scenario: suo figlio e un’altra donna con il suo neonato erano stati uccisi e lasciati sotto a suoi piedi. Senayt non ebbe mai il diritto di seppellire la salma di suo figlio.

Tiemtu Afewerki monaca di clausura casta che aveva interrotto la vita da monastero per crescere 3 figli di una sua defunta sorella vedova, e che venne stuprata ripetutamente da un branco di soldati eritrei e milizie amhara dinnanzi a un pubblico e ai nipoti, costretti ad assistere al disumano atto. La monaca senza alcun imbarazzo ha denunciato dinnanzi alle telecamere per filo e per segno delle immorali e barbariche violenze subite, per poi morire qualche settimana dopo aver sofferto di dolori lancinanti ed emorragie nel ventre, causate dallo stupro.

Loro sono 4 delle 120mila vittime di questa orrenda guerra e il loro unico crimine è quello di essere donne tigrine.

Oggi noi, donne del Tigray, vogliamo condividere le nostre sofferenze e portare la nostra solidarietà, certamente ricambiata, a tutte le donne del mondo, ma soprattutto alle donne che vivono in circostanze simili alle nostre: dalla Palestina all’Afghanistan, dal Kurdistan alla Siria, dall’Ucraina ai campi di detenzione di immigrati in Libia, dove donne e fanciulle sono costrette ad abbandonare le proprie case e vedere i propri figli morire e intraprendere esodi incerti alla disperata ricerca della pace; a tutte le donne usurpate della propria dignità e libertà in ogni angolo di questa terra.

Noi oggi siamo qui per ricordare cosa sia realmente la pace e quanto sia importante custodire la vita, soprattutto quella di esseri speciali come donne e bambini.

Noi auspichiamo la vera pace, il reale superamento del conflitto e delle menzogne, il rispetto delle diverse culture ma soprattutto il rispetto delle donne.

Infine, desideriamo anche condannare il lavoro sottopagato, la sottrazione dei figli, le violenze domestiche e i femminicidi che si propagano a macchia d’olio in Italia e in Europa, dove i malfattori vagano liberamente dopo brevi sentenze, di un sistema giuridico maschilista e patriarcale.

Cogliamo l’occasione per ringraziare Non Una Di Meno e Radio Onda Rossa.

Con amore e grinta, l’Associazione delle Donne del Tigray a Roma.


Credits foto di copertina: Una donna tiene un bambino all’interno della scuola secondaria di Adiha, che è stata trasformata in un rifugio temporaneo per gli sfollati a causa del conflitto, nella città di Mekelle, regione del Tigray, Etiopia, 12 marzo 2021. REUTERS/Baz Ratner

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