Il territorio del Tigray e le persone etiopi di etnia tigrina hanno raggiunto ormai quasi un anno di vita in agonia e la catastrofe umanitaria tende solo ad aggravarsi di giorno in giorno.
Gli USA di Joe Biden hanno preso un’ulteriore posizione forte in questi ultimi giorni: il presidente americano ha firmato un ordine esecutivo per nuove sanzioni verso tutti gli attori, nessuna fazione esclusa, ed in prima linea come fautori dei crimini nella guerra iniziata a novembre 2020 in Tigray e sconfinata in questi ultimi mesi in Amhara e Afar. L’esecutività di queste nuove sanzioni saranno praticate entro alcune settimane e non mesi, a detta di un funzionario.
In concomitanza il Bureau of Political-Military Affairs americano ha annunciato aggiornamenti dell’ ITAR 126.1 aggiungendo l’embargo sulle armi verso l’Etiopia ed aggiornando il riferimento per quanto riguarda quello per l’Eritrea. Magra consolazione dopo quasi un anno di guerra genocida e di “attività di pulizia etnica” come dichiarato ormai 8 mesi fa dal Segretario americano Blinken. Sicuramente è una presa di posizione forte nel mare di proclami della comunità internazionale che si fa attendere.
La Cina, Paese con molti vincoli basati su interessi in Etiopia e in annosa tensione con gli USA, non ha ritardato a dare risposta attraverso Zhao, il portavoce del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese:
“Speriamo che gli Stati Uniti siano prudenti e svolgano un ruolo costruttivo. Crediamo che le parti interessate in Etiopia abbiano la saggezza e la capacità di risolvere adeguatamente le differenze, realizzare la riconciliazione nazionale e ripristinare la pace e la stabilità.”
Il portavoce Zhao ha affermato che la Cina ritiene sempre che il diritto internazionale e le norme fondamentali che disciplinano le relazioni internazionali debbano essere rispettate nelle relazioni da stato a stato: la Cina si oppone alla pressione sfrenata o alla minaccia di imporre sanzioni interferendo così negli affari interni di altri paesi.
In tutto questo, dopo che la guerra in Tigray iniziata il 4 novembre 2020, si è svolta in totale blackout di comunicazioni, elettricità ed isolato dal resto d’Etiopia e del mondo per via dei suoi confini chiusi, oggi il suo popolo e tutte le persone che vi abitano risentono delle conseguenze di quella guerra. Sicuramente il loro bisogno principale è il supporto alimentare e di acqua per riuscire a sopravvivere alla carestia che avanza.
Gli aiuti umanitari, i 100 camion costanti ogni giorno che dovrebbero entrare in Tigray come affermato da WFP e USAID per distribuire cibo, medicinali, carburante, non ci sono causa il blocco legato ad iter burocratici, per sdoganamento che dovrebbero passare principalmente per l’unica arteria stradale attiva e più sicura di altre vie, ovvero Samara, Afar. Questa è la conseguenza di scelte politiche del governo centrale per salvaguardare la sicurezza nazionale: buoni propositi, ma tali modalità non perseguono il bene per tutto il popolo etiope così arrivano notizie in queste ultime ore di molti tigrini, di ogni età, che stanno morendo di fame oltre che per gli aiuti umanitari non pervenuti, anche per i raccolti saccheggiati, distrutti, campi bruciati e bestiame rubato o ucciso durante i mesi di apice della guerra genocida. Le banche sono bloccate e l’accesso ai conti limitati.
Il conflitto negli ultimi mesi è sconfinato in Amhara ed Afar creando centinaia di migliaia di nuovi sfollati interni: nuove persone che necessitano supporto ed aiuto.
La discriminante sostanziale però è che in queste regioni l’accesso umanitario è sicuramente più pratico e facilitato rispetto all’accesso contagocce verso la regione tigrina, dove si sono perpetuati per mesi abusi e stupri in maniera sistematica come arma di guerra verso donne di ogni eta di etnia tigrina: ancor oggi la fame è l’arma più micidiale sullo stesso piano delle scelte politiche per gestire l’attuale catastrofe umanitaria.
Il recente rapporto UNOCHA mostra che solo lo 0,2% di contanti arriva a girare in Tigray (i prezzi di quel poco cibo e beni pprimari sono saliti alle stelle come purtroppo consono di tali situazioni), e sono a disposizione ed attivi solo il 12% di carburante che servirebbe e il 3% di camion di ciò che è necessario per operare. Ciò amplifica il livello di inadeguatezza degli aiuti e la mancanza di accesso alle risorse nel Tigray.
Tra i botta e risposta di guerra diplomatica, il Tigray sta sanguinando e tutte le persone confinate in quel territorio stanno subendo l’avanzare di una carestia indotta e creata per scelte politiche precise.
Riportiamo una testimonianza per far capire la gravità della catastrofe umanitaria in atto.
“Un mese fa, è finito tutto (al suo villaggio n.d.r.)”, ha detto Girmanesh Meles, 30 anni, ad Al Jazeera. La donna ha aggiunto che Haftom, il figlio di 18 mesi, è troppo debole anche per piangere.
“È diventato normale passare quattro giorni a non mangiare nulla”, ha testimoniato. “Ho aspettato per due settimane nel villaggio… sperando che qualcuno mi aiutasse”, ha aggiunto. “Ma nessuno è stato in grado di aiutare. Tutti erano come noi (nelle stesse condizioni di carestia n.d.r.)”.
“I miei parenti mi hanno detto di rimanere nel villaggio, che non c’è niente che l’ospedale possa fare”, ha detto Girmanesh. “[Ma] vedendo mio figlio diventare sempre più debole ogni giorno, non potevo sedermi e aspettare che morisse tra le mie mani”. Girmanesh con il figlio è riuscita a raggiungere il principale ospedale di Mekelle.
In questa struttura negli ultimi due mesi sono arrivati 60 bambini curati per carenze alimentari e grave malnutrizione come Haftom, 6 di questi purtroppo non hanno sopportato la fatica ed il dolore di questa lenta agonia e sono morti. A più di 10 mesi dall’inizio del conflitto, le condizioni di carestia, che fino all’inizio di luglio erano limitate alle aree rurali del Tigray, ormai hanno raggiunto la periferia di Mekelle.
Anche le banche, come gli aiuti alimentari, sono bloccati e tagliati fuori dal sistema federale come per altro le telecomunicazioni.
“Le attività economiche sono bloccate”, ha detto ad Al Jazeera Micheal Gebreyesus, 35 anni residente a Mekelle. “Dall’inizio di settembre, siamo autorizzati a prelevare solo 1.000 birr (circa 22$; in precedenza erano consentiti prelievi di 2.000 birr) al mese”, ha aggiunto, lamentandosi che la somma non può coprire i prezzi alle stelle dei prodotti alimentari di base.
“Teff (grano essenziale per cuocere l’injera) è di 6.000 birr (130,43$) per quintale. L’olio da cucina costa 700 birr (15$) e questo se sei fortunato ad averlo sul mercato. Verdure essenziali come pomodoro e cipolla costano 100 birr (2,17 $) al chilo”.
La 25enne madre di due bambini ha detto che si vergognava di dover andare di casa in casa, bussando alle porte di estranei per chiedere una pagnotta o una piccola porzione di injera.
“Sono abituata a passare due giorni a mangiare niente. Ma i miei figli non possono trascorrere più di un giorno. Loro piangono; prego affinché smettano di piangere”, ha detto Worknesh.
Da quando è iniziata la guerra del novembre 2020, migliaia di persone provenienti da tutto il Tigray sono fuggite nei grossi centri come Mekelle in cerca di sicurezza. Rifugiati nelle scuole, questi sfollati interni aspettano aiuti alimentari. Nelle ultime due settimane residenti hanno testimoniato che quattro persone nella scuola secondaria di Mai’woyni sono morte.
“Sono morti… dopo settimane di fame. Due di loro erano anziani e i restanti bambini”, ha detto Tesfay, sfollato interno di Humera che passa le sue giornate a chiedere l’elemosina fuori dalla scuola.
Presso l’ospedale di Ayder stanno finendo anche le forniture mediche di base e le medicine testimoniano medici ed infermieri.
“Stiamo lottando per continuare con risorse estremamente limitate. Stiamo lottando per fornire cibo ai pazienti”, ha affermato il dottor Sentayhu Mesgana, vice capo medico dell’ospedale.
“Abbiamo sospeso ulteriori diagnosi a causa di interruzioni elettriche e mancanza di pezzi di ricambio. Per ora l’ospedale fornisce solo i servizi di base”.
Con la mancanza di carburante in tutto il Tigray, ne risentono anche le attività di ambulanze per trasferimento pazienti o supporto medico.
“Non sappiamo quante persone muoiono nella regione a causa della malnutrizione. Siamo disconnessi dai centri sanitari a causa del blackout delle telecomunicazioni. Potevamo solo sapere dei pazienti che sono riusciti ad arrivare qui. Solo pochi possono farcela”, ha detto il dottor Sentayhu. “Non possiamo fornire supporto nutrizionale per adulti al pubblico in generale, che è molto costoso e inefficace data la terribile situazione in cui ci troviamo”.
Tesfaye Hiluf, che viveva dignitosamente come agricoltore a Mai’alem, un villaggio alla periferia di Mekelle, non poteva più nutrire la sua famiglia e in particolar modo Gebreanannya, suo figlio.
“Abbiamo finito il cibo due mesi fa. Abbiamo cercato di sopravvivere chiedendo aiuto agli amici. Non c’era niente da mangiare per tre settimane. Non potevo permettermi di comprare il latte per mio figlio quando la madre non lo allattava. Piange senza sosta”, ha detto Tesfaye.
“Ascoltando le sue grida, ci sono giorni in cui contemplo di uccidermi.”
Con le scorte mediche in esaurimento, il dottor Abrha, il pediatra che si occupa dei bambini malnutriti, teme che il peggio debba ancora venire.
“La scorta di latte terapeutico si esaurirà in tre settimane dato che non ci sono nuovi rifornimenti”, ha detto il dottor Abrha. “Ciò significa che dovremo sospendere i trattamenti dopo tre settimane”.
Un po’ nerd, un po’ ciclista con la voglia di tornare a girare l’ Etiopia