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Davide Tommasin ዳዊት

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Africa, il continente di cui non si deve parlare

Pubblicato il 28/10/25, 9:08 am

Africa, il continente di cui non si deve parlare

Africa, quel continente che in Italia viene raccontato dai media sotto l’occhio stereotipato degli africani sempre in mezzo a conflitti e in miseria e già qui bisogna fare una bella sottolineatura che marca bene il contesto.

Questo articolo come spunto di riflessione per cercare di indagare sul perché in Italia non c’è informazione sdoganata sull’Africa se non quella di mero interesse.

Io sono italiano. Non europeo, prima di tutto italiano: è la mia percezione identitaria, quella che scuola, cultura e politica mi hanno insegnato. Ma quando parliamo di Africa, improvvisamente, non esistono congolesi – senegalesi, etiopi o somali – esistono solo “africani”.

Sempre per percezione personale, quindi del tutto opinabile, è che gli “africani” al popolo italiano gli è stato raccontato che hanno sempre vissuto così, per cui non fa notizia 1 guerra in più un conflitto in meno, un golpe o 3 bambini morti per fame.

È come se 1,5 miliardi di persone (stime 2025), 54 Paesi e più di 3.000 popoli e culture diverse venissero fusi in un’unica etichetta generica, utile solo a costruire paure e consensi.

L’Africa in Italia ridotta a mera informazione di media di nicchia e comunicati/appelli del comparto umanitario ed emergenziale.

Chiamare africani è troppo semplicistico, riduttivo ed erroneo se si vuole parlarne e scriverne.

Coesistono più di 3000 gruppi etnici, di popoli con le loro storie, culture e attualità.

Questi dati offrono già un imprinting diverso come chiave di lettura di cos’è Africa: non solo un continente, ma un crogiuolo di colori, esperienze, socialità, politica che chiamarlo solo Africa sminuisce tutte quelle persone.

Sulle pagine dei media italiani l’Africa ormai è solo raccontata attraverso narrative tossiche e criminalizzando o usando le parole come armi: migranti, esternalizzazione confini, clandestini da fermare, ONG da criminalizzare, politica di governo e politiche migratorie austere e in violazione dei diritti umani, CPR, “centri di permanenza per il rimpatrio”, tribunali per i diritti delle “persone in movimento” che arrivano da una parte del sud del mondo.

Tale semantica non fa altro che svilire, annacquare e annichilire gli infiniti colori dei popoli africani: l’Africa raccontata da chi è sempre in ricerca di consensi e per interesse.

Le chiacchere sull’Africa nei palinsesti TV (d’intrattenimento più che culturali) e le varie dichiarazioni sui media della carta stampata, sono solitamente da parte di “osservatori”, esperti, ricercatori… ma nella totalità non africani.

Perché invece non si da più spazio a chi è nato o vive in Africa? Per un’informazione più focalizzata e giusta.

L’Africa oggi, tra crisi e guerre non sdoganate dai media

L’Africa nel 2024 aveva registrato livelli record di circa 45 milioni di sfollati e richiedenti asilo. Oggi metà degli sfollati globali e il 40% dei conflitti sono in Africa.

In Italia invece i media sfrigolano quando c’è da poter fare gossip sulle dichiarazioni propagandistiche stile “gli africani ci invadono”. Ecco cosa impara l’italiano medio sull’Africa da parte dei media.

3 esempi mediaticamente vendibili, ma sistematicamente dimenticati

1. La guerra genocida in Tigray

Tra il nov2020 e il nov2022 in Tigray, stato regionale in Etiopia a confine con l’Eritrea e Sudan, c’è stata una guerra genocida con 800.000 morti stimati, diversi report che indicano tutti i tratti di genocidio sul popolo tigrino in una regione da quasi 7 milioni di persone, in blackout comunicativo ed elettrico e bloccato accesso ai media e al supporto umanitario per volontà politiche. Oggi persistono circa 760.000 sfollati in attesa di tornare a casa, in attesa di avere giustizia e in mezzo alla guerra politica. Il sistema sanitario distrutto per quasi il 90% durante i 2 anni, oggi stenta a riprendersi come il sistema scolastico: questi luoghi di cultura sono stati occupati dagli sfollati.

Pulizia etnica confermata, arresti di massa, violenza di genere, stupro come arma di guerra per “sterminare” l’etnia tigrina, blocco degli aiuti umanitari e censura dei media sono stati perte dei crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati in Tigray – Etiopia, Africa – nel silenzio del resto del mondo.

Già questo basterebbe a far scrivere libri, analisi a giornalisti nostrani e titolare nelle prime pagine scoop sugli orrori e disumanità di una guerra definita per altro la più sanguinosa di quelle del XXI secolo.

Sui social come X (ex Twitter) la diaspora tigrina e gli attivisti, dopo 3 anni di “cessazione ostilità” in cui non sono mancati abusi e occupazione del territorio, utilizzano ancora l’hashtag #Justice4Tgiray e #TigrayGenocide per cercare di dare attenzione a questo contesto, ancor peggio dimenticato oggi.

La strategia, una volta fatte tacere le armi, è quella di normalizzare il tutto anche a livello mediatico, silenziandolo e non parlandone più: ma la pace ha bisogno di giustizia e la giustizia per la tutela dei diritti passa anche per una giusta informazione condivisa.

Personalmente ho cercato di portare aggiornamenti costanti: c’è un archivio di 5 anni sul Tigray che trovi qui se vuoi approfondire. Ancora oggi condivido notizie sulle conseguenze di quella guerra che, a ben vedere, bisognerebbe chiamare genocidio.

Sul genocidio in Tigray ho scritto anche recentemente: “Tigray, il genocidio invisibile : come il mondo ha dimenticato 800.000 morti”

2. Sudan: la più grande crisi umanitaria globale

Dal 15apr2023 in Sudan è scoppiata l’ennesima guerra partita da un tentato golpe da parte delle RSF – Rapid Support Forces, i janjaweed (letteralmente “diavoli a cavallo”) che erano stati integrati nella SAF – Sudanese Armed Forces, l’esercito regolare. Oggi si contano 30 milioni di persone (più della metà dei sudanesi) dipendenti dal supporto umanitario, 15 milioni di questi sono bambini e quasi 10 milioni sfollati interni.

I media italiani ne hanno scritto? Si, come La Repubblica che risulta mainstream, notizie per la massa, o Avvenire, che è già più legato ad un certo target di lettori sensibili a certe tematiche.

Di Sudan ne ha scritto anche Africa Express che con il suo articolo “Accuse all’Italia per l’addestramento dei janjaweed: “Avete creato un mostro”” avrebbe dovuto scuotere le coscienze, ma sembra sia passato in sordina. AfExp è legato ad una nicchia, quella dell’informazione sull’Africa, dimenticata.

Qualcuno potrebbe anche pensare che tal articolo basti che arrivi alle persone giuste: perfetto, ma qui si sta cercando di analizzare perché Africa non è mainstream in Italia.

Forse questo articolo è la risposta: si rischia il polverone politico, si rischia di perdere posizioni d’interesse, meglio dunque non parlarne e non promuovere la libera informazione, quella basata sull’onestà intellettuale.

Sui social per il Sudan, l’attualità di guerra e crisi umanitaria, per denunciare violenze, aggiornamenti, viene utilizzato #KeepEyesOnSudan per cercare di far attenzionare il contesto.

3. Repubblica Democratica del Congo (Congo-k) e la sua guerra perenne

Il conflitto nella RDC e successive fasi di violenza nella parte orientale (province del Kivu, Ituri etc) è considerato tra “le guerre più letali del mondo dalla Seconda guerra mondiale”.

Organizzazioni come Amnesty International stimano che “più di 6 milioni di persone sono morte a causa del conflitto nella RDC dal 1998” (incluse cause indirette come malattie, fame, condizioni sanitarie deteriorate)

Il primo trimestre del 2025 solo nella parte orientale, il primo ministro della RDC ha dichiarato oltre 7.000 morti dall’inizio dell’anno per l’avanzata del gruppo ribelle March 23 Movement (M23) nei territori del Nord e Sud Kivu.

Sfollamento interno ed esigenze umanitarie enormi: ad esempio, si segnala che già nelle province del Nord-Kivu e Sud-Kivu c’erano decine di migliaia di sfollati, e nuove offensive hanno provocato, tra inizio 2025, oltre 400.000 persone sfollate.

In Italia forse ha fatto più notizia e gossip il fatto che Trump abbia propagandato la fine della guerra grazie al suo intervento, anche se non è vero perché il contesto invece si è ulteriormente aggravato: la guerra è più sanguinosa che mai.

Africa, storia e cultura dimenticate

Questi casi non sono stati citati per ricadere nella retorica informativa stereotipata di Africa che è solo guerra e crisi umanitaria perenne. Questi 3 esempi contestualizzati per sottolineare che, per esempio parlando di Tigray, molti italiani già fanno fatica a localizzarlo sul mappamondo, nonostante la battaglia di Adwa sia passata alla storia, nonostante esista Axum in cui noi “italiani, brava gente” (cit. Angelo del Boca) abbiamo depredato e saccheggiato nell’epoca dell’imperialismo coloniale fascista.

L’Obelisco di Axum è una stele antica che fu trafugata dall’Italia fascista nel 1937, su ordine di Mussolini, durante la guerra d’Etiopia, e portata a Roma. La stele fu esposta in Piazza di Porta Capena e successivamente restituita all’Etiopia nel 2005.

Informazione “Africa” in Italia

Provo a sviscerare 5 punti, non dogmi, ma spunti di riflessione.

1. Distanza geografica, visibilità e interesse del pubblico

I media non ne parlano, non ne scrivono quanto si dovrebbe in una nazione democratica e con libertà di parola ed opinione perché il problema non è solamente legato all’informazione, ma principalmente culturale e sistemico.

il problema non è solo legato all’informazione, ma principalmente culturale e sistemico.

I media tendono a dare più spazio a eventi vicini al pubblico locale (geograficamente, culturalmente). Uno studio sull’Italia ha rilevato che nel 2022 la copertura sull’Africa da parte delle sei principali testate italiane era relativamente rara: solo 953 articoli sul continente, una media di circa 13 al mese; di quelli, il 69% riguardava migrazione in Europa, il 15,6% società/cultura, e solo il 9,4% “eventi” generali.

Le testate italiane, come molte altre, danno maggiore spazio a crisi che coinvolgono direttamente l’Europa o che hanno un forte risvolto “nostro”.

2. Temi dominanti vs satelliti informativi

Le emergenze in Africa possono essere trattate come “collaterali”, “umanitarie generiche”, o secondo uno schema migratorio, ma raramente con la priorità data a un conflitto che non vede un diretto coinvolgimento italiano visibile.

Lo studio ha evidenziato che delle “notizie Africa” solo il 16,2% trattava il continente in sé (non migranti) e che il tono era neutro per l’87,9%

Un retweet di Nico Piro (che ringrazio) lo sottolinea (guerra in Sudan):

“Le guerre che non ci interessano (non rispondono ai nostri interessi)”

3. Risorse e priorità redazionali

Fare giornalismo internazionale, soprattutto su conflitti o in aree remote, richiede risorse (inviati, traduzioni, verifiche, contesti) che spesso le testate italiane, soprattutto quelle con budget ridotti, possono considerare “meno sostenibili” rispetto a temi domestici o europei.

Un commento di Giulio cavalli lo conferma (rifugiati al “centro umanitario” di Agadez, Niger. Eredità di accordi siglati Minniti 2017 su politiche di “esternalizzazione confini” – #KeepEyesOnAgadez su X) nonostante lui è uno dei pochissimi giornalisti che ne scrive (come MeltingPot Europe e Laura Morreale)

Giulio Cavalli, media. risorse, Agadez, Africa

Inoltre, se un conflitto o un contesto africano non è percepito come “impatto diretto” per l’Italia, può scendere nella scala delle priorità.

Un articolo sul quotidiano Dire (set2020) ha riportato le dichiarazioni di Padre Filippo Ivardi (direttore di Nigrizia) sull’informazione Africa in Italia:

“La copertura dei media italiani, soprattutto sui temi legati all’Africa subsahariana, è caratterizzata da un silenzio e una non-presenza grave. Invece su altri Paesi dove l’Italia si sente più coinvolta, come Algeria ed Egitto, le informazioni ci arrivano molto prima.”

4. Contesti politici, strategici o diplomatici d’interesse

Se l’Italia non è coinvolta in modo evidente e direttamente (o “non vuole” mettersi troppo in mezzo) per qualche tipo di contesto in Africa, la volontà editoriale può essere più debole, precaria o totalmente inesistente.

Altro esempio iconico: il Piano Mattei per l’Africa ideato dal governo Meloni.

I media hanno parlato di Africa in Italia, fin tanto che è bastato dare luce al progetto di stampo neo colonialista, poi il nulla. Non che il governo sia stato così espansivo da dare lumi e trasparenza per promuoverlo, ma anche i media non sono stati capaci, o meglio, non c’è stata volontà di prendere la palla al balzo per dare degna copertura sull’attualità dei vari Paesi in Africa (almeno quelli coinvolti direttamente dal Piano Mattei).

Altra occasione volutamente persa.

5. L’informazione segue la memoria, colonna portante di educazione e cultura

Questo punto secondo me è cruciale e fondamentale per capire le dinamiche sul perché di Africa non si scriva e non si parli di più sui media mainstream italiani.

Al netto di quanto scritto finora, la memoria traina la società: senza memoria continueremo a perpetrare sempre gli stessi errori.

La mancanza di memoria, di racconto e di informazione come bene comune avvallerà una certa propaganda, quella che si avvale di fake news e, alla peggio, di una nuova narrativa basata volutamente su informazioni parziali e snaturate dal loro contesto.

Non è un problema dei social media o delle notizie “flash” che i giornali online utilizzano come metodo d’informazione sempre più smart e sintetica perché così vogliono i lettori coercizzati dal mercato globale.

Questi sono solo palliativi per spiegare il problema: strumenti che vengono usati a seconda dello scopo di chi li impiega.

Il problema di fondo è che, se non c’è memoria e volontà di condividerla, sempre più persone dimenticheranno le ingiustizie e le disumanità di cui l’Italia si è macchiata – o di cui si è fatta complice – in Africa, e con esse tutti quei contesti e quei luoghi toccati da quei crimini.

Per questo ricordare non è un lusso, non è solo informazione, ma un atto politico, ancor meglio una presa di coscienza condivisa. Dimenticare, invece, è l’arma più micidiale che i propagandisti e i revisionisti storici – magari con qualche posizione di potere politico – possano utilizzare.

Quando un popolo non ricorda, chi comanda può riscrivere tutto: la storia, i colpevoli, persino la verità. E così l’Africa continuerà a essere raccontata non per ciò che è, ma per ciò che serve ai loro interessi.

La memoria, invece, deve servire come arma di difesa, per dare voce ai tanti popoli africani, alle loro storie, alle loro culture, alle loro origini.

Il sistema educativo non dovrebbe quindi fermarsi al tempo del colonialismo. Ad oggi, siamo sicuri di aver fatto i conti con la storia? siamo sicuri di aver sanato ogni rancore o nostalgia? 

Dopo una vita di ignoranza, posso dire di aver conosciuto un poco d’Africa solo in questi ultimi 5 o 6 anni, in cui ho ricercato informazioni prima sul contesto del Tigray e sulla guerra, poi allargando sempre più la visione verso i contesti migratori del Corno d’Africa, passando per Gibuti verso lo Yemen.

Nel contempo ho approfondito il Sudan, cercando aggiornamenti sulla situazione dei 60.000 rifugiati tigrini dal novembre 2020, e sono arrivato a leggere articoli e notizie sulle condizioni dei rifugiati del “centro umanitario” di Agadez – dove, peraltro, sono passati alcuni migranti tigrini in fuga dalla guerra – collegandolo al contesto della Libia, dei lager e della guardia costiera che spara ai migranti nel Mediterraneo, finanziata anche dall’Italia che rinnoverà il memorandum il 2 novembre 2025: se questo significa perpetuare una politica criminale che avvalla violenza e abusi su “persone in movimento” io, come tanti altri, dico STOP agli accordi con la Libia.

Naturalmente quello che ho letto è stato per la maggior parte da articoli di media internazionali, o ancor meglio da attivisti e giornalisti locali in Africa attraverso i social. Sia mai da quelli in Italia.

La memoria e la cultura ci rendono liberi e danno giustizia a tutti i dimenticati.

Ricordare, raccontare e informare, con onestà e rispetto, significa resistere al silenzio e alle ingiustizie.

Chi può, dovrebbe avere il dovere morale di parlare di più d’Africa in Italia: per il bene comune, per senso di giustizia, per le generazioni future.

Davide Tommasin
Davide Tommasin

Un po’ nerd, un po’ ciclista con la voglia di tornare a girare l’ Etiopia

http://www.tommasin.org

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